Uno scalatore su due ruote. La leggenda di Marco Pantani - Non solo buono
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La redazione
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Uno scalatore su due ruote. La leggenda di Marco Pantani

«Il ciclismo mi piace perché non è uno sport qualunque. Nel ciclismo non perde mai nessuno, tutti vincono nel loro piccolo, chi si migliora, chi ha scoperto di poter scalare una vetta in meno tempo dell’anno precedente, chi piange per essere arrivato in cima, chi ride per una battuta del suo compagno di allenamento, chi non è mai stanco, chi stringe i denti, chi non molla, chi non si perde d’animo, chi non si sente mai solo. Tutti siamo una famiglia, nessuno verrà mai dimenticato. Questo è il ciclismo per me».

Questo era il ciclismo per Marco Pantani, questo è diventato il ciclismo per milioni di italiani negli anni 90. Un racconto nuovo dello sport, portato davanti al grande pubblico con la passione di un attore di teatro, grazie alla voce inconfondibile di Marco Pantani. Le sue salite diventate proverbiali, le sue curve nell’ombra; su ogni terreno, l’ardore in ogni pedalata instancabile.

Il primo incontro tra Marco e la bicicletta avvenne da piccolissimo, con la Graziella che la madre utilizzava per andare a vendere piadine in un chiosco sul lungomare di Cesenatico, tutti i giorni.
È una famiglia molto unita quella del giovane Pantani. Una famiglia semplice, un’infanzia serena. Un ottimo rapporto col nonno Sotero. Portava spesso Marco a pescare. Un’attività lenta e antica, fatta di silenzi in cui imparare a comunicare senza parole. Un’intesa intima e profonda che porta il nonno a intuire la vera vocazione di Marco. Ha dieci anni o poco più quando riceve la sua prima bicicletta, un regalo del nonno. È la prima pedalata di una storia destinata a diventare leggenda.

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Da Coppi a Pantani: l’ascesa di un mito

Sono solo sette.
Nell’ordine: Fausto Coppi, Jacques Anquetil, Eddy Merckx, Bernard Hinault, Stephen Roche, Miguel Indurain e Marco Pantani.

Solo loro sono riusciti nell’impresa di conquistare la prestigiosa doppietta Giro-Tour. Solo loro sette sono riusciti a salire in cima al podio del Giro d’Italia e del Tour de France nello stesso anno. A unire il primo e l’ultimo dei campioni consacrati nella storia del ciclismo – entrambi italiani – è un filo sottile. Coppi è il volto dell’epoca d’oro del ciclismo ed è considerato uno dei più grandi e popolari atleti di tutti i tempi, soprannominato il Campionissimo. È stato il primo in assoluto a conquistare la doppietta Giro-Tour, nel 1953. È morto dieci anni prima che nascesse Marco Pantani.

«Per un corridore il momento più esaltante non è quando si taglia il traguardo da vincitori. È invece quello della decisione, quando si decide di scattare, quando si decide di andare avanti e continuare anche se il traguardo è lontano».

Nonostante i due campioni non abbiano fatto in tempo a conoscersi, Marco conosce bene questa frase. È scritta su una parete del G.C. Fausto Coppi di Cesenatico – il primo Gruppo Cicloturistico in cui Marco Pantani si tessera, il punto di partenza dei suoi successi. Da Coppi, Pantani sembra aver ereditato le sorprendenti doti da scalatore.
È il 22 aprile 1984 quando Marco ottiene la prima vittoria da professionista in solitaria, a Casa Castagnoli di Cesena – un tracciato curiosamente pianeggiante. Con gli anni, la sua innata attitudine per le salite cresce di pari passo coi suoi successi. Un percorso senza sosta e in salita, i muscoli in tensione, lo sguardo fisso sulle le vette più alte.

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Il tesoro del Pirata

Gianni Mura, uno dei più noti cronisti sportivi, gli chiese: «Perché vai così forte in salita?»

Marco ci pensò su qualche secondo. «Per abbreviare la mia agonia».

Gli anni 90 rappresentano per Pantani l’ascesa all’olimpo del ciclismo.
La sua prima esperienza al Giro d’Italia è nel girone under 23, una vera e propria scalata del podio. Arriva terzo nel 1990, si classifica al secondo posto nel 1991, nel 1992 alza al cielo il trofeo d’oro. Non è che l’inizio di un percorso luminoso, fatto di traguardi, vittorie e sfide sempre più ardue.

Nel 1994 iniziano le corse più memorabili, è un trionfo dopo l’altro. La massima potenza atletica, la tenacia incrollabile, la salita spettacolare. Fissi nella mente di Pantani ci sono due obiettivi: in Italia la maglia rosa, in Francia la maglia gialla. I risultati dell’esordio hanno il sapore di una promessa. È argento nel Giro d’Italia e bronzo nel Tour de France.

La stagione del 1995 inizia con un brutto colpo.

«Avrei voluto essere battuto dagli avversari, invece mi ha sconfitto la sfortuna».
Lo scontro con un’automobile durante un allenamento costringe Pantani in ospedale, frenando l’avanzata del giovane campione.

L’incidente non basta a fermarlo. Marco torna ben presto in pista, con un ardore e una determinazione che conquistano la cronaca e incendiano il grande pubblico. Ha ancora i segni dell’incidente sul volto quando monta in sella alla bici da corsa. Saranno proprio quel volto sfregiato e quello spirito incrollabile e combattivo a valergli il soprannome di Pirata. Tenace, indomito, pronto all’assalto.

Un’attitudine che, unita all’allenamento senza sosta e alle abilità diventate leggendarie, lo porteranno sulle vette più alte.
Tappa dopo tappa, salita dopo salita, il sacrificio e la tenacia ad ogni pedalata.

È il 1998 quando riesce nell’impresa e il sogno di una vita si realizza. Marco Pantani è campione d’Italia e di Francia – conquista la tanto ambita, prestigiosa doppietta Giro-Tour.

L’intera nazione festeggia con lui. È la consacrazione di una leggenda.

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La discesa

Una volta raggiunta la vetta più alta c’è un solo modo per continuare il percorso.
L’anno dopo per Marco Pantani inizia la discesa. Un periodo tra insicurezze e curve nell’ombra.

È la mattina del 5 giugno del 1999 quando arriva l’esito degli esami del sangue, subito resi pubblici. La percentuale dei globuli rossi è superiore di meno di un punto rispetto alla tolleranza consentita dal regolamento.

«Mi sono rialzato, dopo tanti infortuni, e sono tornato a correre. Questa volta, però, abbiamo toccato il fondo. Rialzarsi sarà per me molto difficile» disse Marco accompagnato dai carabinieri, dopo aver rotto un vetro della sua stanza d’albergo per la frustrazione.
Pantani non risulta positivo al successivo controllo antidoping, viene comunque escluso “a scopo precauzionale” dalla sua corsa al Giro d’Italia, fino a quel momento gloriosa.

L’intera squadra di Pantani si ritira dalla gara; Paolo Savoldelli, subentrato al primo posto in classifica, rifiuta di indossare la maglia rosa al posto di Marco – la sua maglia rosa.

Escluso dal Giro, Marco declina anche il Tour (nonostante avrebbe potuto competere secondo il regolamento).

In mezzo al tifo entusiasta di milioni di fan che fino a quel momento avevano incoraggiato le salite del campione, si insinuano i bisbigli. Dubbi, diffidenza, indagini tra camere d’albergo e altri personaggi coinvolti.

Negli anni successivi continua la discesa. I bisbigli e i sospetti fanno sempre più rumore. Marco ha perso il suo smalto, la sua fame di vittoria. Nel 2003 si ritira dal Giro. Viene lasciato solo, la sua pedalata vigorosa rallenta, fino a fermarsi la sera del 14 febbraio 2004.

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Il volto del ciclismo

Nel 2004 la maglia rosa d’Italia diventa nera e avvolge tutti. Professionisti, amatori, appassionati di ciclismo. Uno sport che mai prima di Pantani aveva raccolto l’intera nazione in una grande tifoseria. Grandi e piccoli, Pantani riusciva a tenere incollati milioni di italiani col fiato sospeso davanti alla tv. I percorsi del Giro presidiati da appassionati ai bordi delle strade per incoraggiare il campione, sulle cime più alte, al freddo, sotto la pioggia, tutto per condividere il suo viaggio anche solo per una frazione di secondo. Quando Pantani partiva esplodeva qualcosa nel pubblico, un sentimento difficile da descrivere, un’adrenalina collettiva. Pomeriggi interi ad aspettare un istante.

È stato, ed è ancora oggi, il volto del ciclismo.

Marco Pantani è considerato all’unanimità uno dei più grandi scalatori e ciclisti di tutti i tempi, una carriera che ha collezionato 46 vittorie nei campionati agonistici.

Tra le innumerevoli vette scalate, ce n’è una a cui era particolarmente legato.
«È sul Monte Carpegna che ho preparato tante mie vittorie. Sempre ad allenarmi sulle stesse strade di casa».

Proprio su quel tracciato in salita percorso mille volte, lungo quelle “strade di casa” tra Emilia e Marche, riecheggia il suo ricordo più autentico. Si leggono due frasi scritte in bianco lungo le curve più strette:
“Questo è il cielo del Pirata.

Si sente solo il tuo respiro.”

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