IN OSTERIA, COME A CASA, C’È SEMPRE UN SORRISO PER TUTTI
“Sono ancora aperte come un tempo le osterie di fuori porta…” intonava Guccini nel lontanissimo 1974. Oggi, quell’atmosfera “sporca” ma immacolata, verace ma genuina, la si rivive ancora in luoghi magici senza tempo che puntellano qua e là l’Emilia. A meno di un chilometro dal casello di Modena Nord c’è La Piola delle Ortiche, antica stazione di posta e cambio cavalli datata 1752, che racchiude un pezzo di storia di queste terre.
“Ristorante” solo per esigenze di reperibilità, è sempre stata una locanda con annessa stazione di cambio cavalli, oltreché traghetto sul fiume Secchia. Senza tempo, autentica, la cucina e l’atmosfera della Piola sono quelle della civiltà contadina, dei carrettieri, degli scariolanti. Cucina povera, e quindi leggera, “dai profumi e sapori dimenticati” come scriveva il grande Zavattini.
L’osteria ha il pregio di farti sentire subito a casa: qui qualcuno ti sorride sempre, si beve del buon vino (rigorosamente della casa), e ci si ristora con i piatti freschi del giorno, non molti, ma tutti della tradizione, e di stagione.
Nascosto sotto il pergolato o nelle sale di legno, Claudio Camola, con i suoi 80 anni passati da un po’, è un inno alla giovinezza. Le sue parole ti avvolgono come miele, dolce e profumato, carico di ricordi indelebili. “La Piola è un’osteria di bassissimo rango adagiata sul fiume, lungo il confine del Ducato di Modena. Di là dal fiume c’era la Maria Luigia di Parma, che comandava anche su Reggio Emilia. Era un’osteria di confine, di carrettieri che levavano la ghiaia dal fiume, e un cambio cavalli perché nessuno voleva i cavalli degli altri, dicevan che portavan malattie. Era un postaccio infimo e malfamato” ci racconta l’oste, lasciandosi scappare ogni tanto qualche parola in dialetto.
CUCINA POVERA, MA VERA
La cucina modenese più conosciuta è quella “del maiale“, grassa e opulenta: cucina da contadini ricchi e da padroni, che rivive ancora sui piatti serviti oggi. Il menù, alla Piola del Claudio, è sempre uguale: due primi, due secondi e due contorni, che però cambiano tutti i giorni, sempre freschi. “Se facessimo anche solo tre primi e tre secondi non sarebbero freschi. Mia zia diceva sempre: ‘Neanche la Madonna di Medjugorje li può fare’”. Una volta una signora le chiese quale fosse la differenza tra un’osteria e un ristorante, e lei rispose secca: “L’osteria è quel locale dove i proprietari non si sono potuti permettere il freezer”. Sacrosanta verità.
Tra le specialità della casa ci sono la celebre pasta con le ortiche e la somara con polenta, tipico piatto povero specie di quelle osterie dei birocciai dove era impensabile mangiare cavallo, che era più spesso compagno di lavoro. E a chiudere, la torta ed furmintoun (torta di frumentone), dolce poverissimo inventato dai contadini a cui il padrone toglieva tutta la farina bianca, lasciando solo quella gialla.
La zia cuoca a Claudio gli ha lasciato tutto. “Era una donna semplice, di campagna, straordinaria, carismatica, l’ho adorata”. Aveva conosciuto grandi personaggi come Dino Campana: di lui diceva che era pazzo, si picchiava per un’ora con la sua donna, pazza anche lei, e poi correvano sui prati a far l’amore.
L’HOTEL DELLA FLANELLA, UN TEMPO LUSSUOSISSIMO BORDELLO
Vicino alla piola sorge l’albergo, l’Hotel della Flanella, dal 1900 – e fino a quando è stato possibile – casa di tolleranza, una delle otto più lussuose di tutta Italia: erano 1200 in tutto, di tre categorie, ma queste otto erano oltre, erano case di rappresentanza per le grandi occasioni, per il podestà, il vescovo, le autorità. C’erano, e ci sono ancora, letti a baldacchino, statute, arazzi belgi del ‘700, gioielli, specchi lavorati a mano sospesi sui letti. Niente a che vedere con i casini delle maîtresse che accoglievano a frotte studenti e soldati vogliosi.
Vittorio Sgarbi ripete sempre che una cosa così non l’ha mai vista, è unica al mondo. A Claudio lui ha dato una grandissima mano a ristrutturarlo, assieme alla madre, “mia grandissima amica”: donna eccezionale la Rina, che spesso frequentava la piola con la famiglia, anche con il padre di Vittorio, “coltissimo, di una cultura silenziosa, tenuta nascosta, per sé”. Oggi, in quell’albergo che conserva geloso segreti intimissimi, non c’è niente di diverso, di aggiunto: legno, tappezzerie e il resto, è tutto originale.
Un progetto enorme, ambizioso, per ripristinarlo nella sua autenticità, coi muri in encausto che lavoravano i veneziani nelle chiese tanto tempo fa: le donne buttavano la cera, scaldavano i ferri contro la parete, che la cera la assorbivano, e poi gli uomini ci davano sopra il colore.
Poi, è arrivato il 20 settembre 1958. “Per la vergogna, dopo quel giorno i bordelli li han distrutti tutti: i vicini di casa non vedevano l’ora di raderli al suolo. Ma questo no. Ci ho messo vent’anni della mia vita per sistemarlo, e lasciarlo praticamente intatto”. Un’atmosfera elegantemente decadente, dannunziana, che invita al “dolce far niente” e alla “serena flanella”, nel bar liberty o nelle particolarissime camere.
IL DUCE, TOGNAZZI E AGLI ALTRI: STORIE D’AMORE E INCONTRI FUGACI
Albergo e piola parlano, raccontano di storie d’amore, incontri fugaci, grandi passioni, amicizie intramontabili. Convinto (e ovvio) sostenitore della riapertura delle case chiuse, craxiano fuori tempo massimo (“Ho ancora la foto di Bettino appesa in osteria”), Claudio passa in rassegna i grandi personaggi che erano soliti frequentare queste mura.
C’era il Duce, che in quelle segrete stanze si appartava con le sue amanti. Su Mussolini un famoso articolo di Montanelli raccontava, testuali parole, che “seguiva una selvaggia sarda nel zunna, che cinque giorni prima del suo arrivo non scendeva mai in sala”. Al che la zia, quella dell’osteria – l’altra faceva la maîtresse – commentava sempre: “Facevano come le lumache, la spurgavano nella segatura per un po’ di tempo…”.
Tra gli ospiti memorabili dell’albergo ci fu Tognazzi, che ci rimase per due mesi mentre girava La bambolona. “Personaggio incredibile Ugo, che mi ha lasciato anche un sonetto scritto, che però ora qualcuno, forse innamorato, mi ha portato via”, assieme a tutti gli altri messaggi d’amore appesi su un tabellone sottratto in malo modo.
LA TRADIZIONE DEI SONETTI E IL MITICO FRAGOLONE
Quella dei sonetti era ormai diventata una tradizione alla Piola… Aveva cominciato un certo Costanzo, professore di Napoli con dodici lauree “che in tv faceva l’origine delle parole”. A quei tempi, 45 anni fa, Claudio cucinava sempre l’asino. Il professore scrisse: “Non esser mio buon oste di cibo e vini avaro, dimentica le mie lauree e dammi del somaro”. Ma Tognazzi li superò tutti. “Quando venne mi chiese se avevo del Gutturnio o della Bonarda. ‘No, io c’ho il Fragolone’. E scrisse: “Questo vino non è di Fiorenzuola d’Arda, ma per lui rinunciai a Gutturnio e Bonarda. Leggesi Bonarda, non Bernarda”. Risate in sala.
Il Fragolone è il vino della casa: “È così speciale perché ha un 10% di uva dentro” ci spiega con grande precisione Claudio. I contadini un tempo, che ingurgitavano “un etto e mezzo di roba al giorno”, non avevano i succhi gastrici per poter digerire bene. Alla lunga, c’era solo un modo per non farli deperire: “Quando stavan male li seppellivano nudi fino al collo nella massa del letame, dietro le case”, che teneva 38 gradi tutto l’anno, perché la paglia fermentava insieme allo sterco della mucca. E li salvavano.
“C’era tanto da mangiare che ne han seppelliti nove nella massa” era diventato persino un modo di dire di uno ricco che si era sposato. Il Lambrusco, di fatto, aiutava a digerire i grassi. Adesso che di grassi ne abbiamo in abbondanza, bere un vino così acido sarebbe “come spegnere un incendio con la benzina”. Ecco allora che è nato il Fragolone, denso, rosso: “Il mio ha la prerogativa che la vigna è di fianco al fiume. Come tutti i fiumi anche qui il terreno intorno è basico, ecco perché questo ha un sapore diverso”.
UN LOCALE, E UNA VITA, LEGATI A UN NOME: ENZO
L’hanno assaggiato tutti: Craxi, Fellini, Tondelli, Mike Bongiorno, Agnelli, Pavarotti, Vasco, Shumacher. Ma la storia della Piola, e quella umana di Claudio, sono inestricabilmente legate a un nome: Enzo. Enzo Tortora e Enzo Ferrari. “Tortora lo conobbi ai tempi dell’università. Da ragazzo ero il capo degli studenti, facevo spettacolini per fare qualche soldo, seppi che lui veniva a Modena, gli scrissi in albergo dicendo che ero uno studente, che avevo bisogno di una dragata per farmi rieleggere. ‘Se lei oggi viene a trovarmi al teatrino Cavour sarò rieletto’ gli scrissi. Lui venne davvero, di fronte allo stupore di tutti”. Quell’incontro fugace divenne un’amicizia speciale.
“Lo accompagnavo anche nei congressi dei Radicali. Quando lo arrestarono gli scrissi subito in carcere: ‘Non può aver fatto una cosa del genere’. Seguii per Radio Radicale tutta la vicenda”. Sulla Domenica del Corriere un giorno Cino scrisse che solo tre persone avevano creduto in lui sin dall’inizio: Enzo Biagi, Nilla Pizzi e Claudio, “il mio amico oste”.
“Appesi la sua foto nella Piola, e ad ogni cliente che arrivava spiegavo che era innocente. Appena uscì mi venne a trovare, sempre scortato da un’auto della Polizia. Per due anni dopo la sua morte ebbi il telefono sotto controllo. Ci vedemmo l’ultima volta qui, mangiava pochissimo, stava male. ‘Non so se ci vedremo ancora Claudio, mi disse, ma ti voglio rivelare la frase con cui inizierò il mio programma quando tornerò in tv: ‘Dove eravamo rimasti‘”. Andò proprio così.
LA STRAORDINARIA AMICIZIA CON FERRARI E I SUOI “TORTELLI DELL’INGEGNERE”
L’altro Enzo era Ferrari. C’è ancora il suo tavolo, sempre quello, e c’è sempre la ricetta dei “tortelli dell’ingegnere”. “Lui aveva il colesterolo alto” ci confida Claudio, “e allora apposta per lui mia zia aveva rispolverato una vecchia ricetta poverissima senza carne, i tortellini della Misericordia, un controsenso eppure presente”.
Non c’è neanche un uovo, ma solo la crosta del pane: la mollica va dentro come ripieno e la crosta mischiata alla farina fa da semolino e dà anche un po’ di colore alla pasta così, dicevano, “i vicini di casa vedevano che non eri così tanto morto di fame da non avere due uova in più”.
A Natale e Pasqua i tortellini non potevano mai mancare, soprattutto per i bambini. Erano democratici, senza distinzione di classe. Si andava a rubare pur di averli. Ma se proprio non si poteva, le nonne tiravano fuori questa ricetta fatta con scarti: pane grattugiato, il verde del cipollotto, che i fruttivendoli buttano via, e il tosone, lo scarto dei primi 10/15 giorni della forma del Parmigiano Reggiano che una volta i caseifici regalavano quando i bambini portavamo il latte alla cascina: non è più latte ma non è ancora formaggio, “una cosa gommosa che a noi piaceva da morire”. Uno scarto che oggi costa più del Parmigiano stesso.
Claudio fu legato a Ferrari da una grandissima amicizia, che ancora oggi omaggia ogni anno con uno scritto. “Mi prendeva in giro, e mi ha sempre voluto un bene dell’anima. Io abitavo al 7 e lui al 9, tutti e due avevamo finestre ad angolo, una di fronte all’altra, con solo una strada in mezzo. Sotto di me c’era un bar che lasciava sempre le sedie fuori, di notte con la nostra banda ci fermavano anche fino alle quattro del mattino a chiacchierare. Di donne e motori, ma ci perdevamo anche tra scherzi e battute”.
LA BANDA, L’ATEISMO E IL FUTURO DI UN MONDO CHE NON C’È PIÙ
Gli amici erano Il Ghiso, suo compare d’infanzia, Nello detto al Duca, perché vestiva benissimo, e Claudio appunto, detto Busti, perché portava un bustino 75 che l’ingegnere odiava perché diceva che sembrava una pignatta di fagioli che bolliva. “Però da me accettava scherzi. Se lo colpivi era molto permaloso, potevi aver chiuso con lui, invece io gliene facevo di così grandi e lui non si arrabbiava mai. Complice forse il fatto di aver conosciuto bene Dino”, l’adorato figlio scomparso a soli 24 anni per una distrofia muscolare.
Claudio ricorda con nostalgia di quando lui e gli altri amici provarono a convincerlo di far correre Patrese per la Ferrari, che allora invece era stato ingaggiato dalla Arrows-Ragno. Ma l’ingegnere non ne volle sapere. E della sua abitudine quotidiana di andare a trovare al cimitero prima il figlio e poi la moglie: “Il guardiano gli apriva mezzora prima, lui stava un quarto d’ora da uno e un quarto d’ora dall’altra”.
Alla Piola al suo tavolo si potevano sedere pochissimi eletti: tra questi, Luca Goldoni, Pietro Barilla e Enzo Biagi. Una sera l’ingegnere disse: “Io non credo in Dio, non sono ateo, sono massone, secolarista e miscredente, non credo a niente, son tutte palle”. E l’altro Enzo, Biagi, ribatté: “Ma ingegnere, scusi. Lei tutti i giorni va a trovare suo figlio e sua moglie al camposanto, quindi significa che in qualcosa crede”. E lui: “Vede professore dove casca l’asino – e gli mise una mano sul braccio in tono scherzoso –, io vado lì perché è l’unico posto dove ci sono i resti mortali delle persone che ho amato, che non sono volate in cielo, ma sono lì, dove li hanno lasciati”.
Ricordi, sapori, odori, tracce di storia di vita scolpite nei muri e nei tavoli di un mondo difficile e meraviglioso che ora però, purtroppo, rischia di sparire: “Non ho figli né nessuno a cui lasciare tutto questo” si lascia andare Claudio con la voce un po’ strozzata. “Ho messo in vendita tutto”. Ci auguriamo, col cuore, che qualcuno raccolga il testimone di questo pezzo di Modena, e di Emilia.